Transizione energetica: qual è la situazione in Italia?
Transizione energetica: con una grande quantità di energia solare, di vento, e di altre risorse naturali da sfruttare per produrre energia pulita, l’Italia è dotata di immense potenzialità per diventate uno dei principali hub di energia rinnovabile presenti nel continente europeo. Per raggiungere tale ambizioso obiettivo, il Belpaese ha tuttavia la necessità impellente di trasformare radicalmente il proprio sistema energetico, traghettandolo in tempi brevi verso fonti meno inquinanti.
Occorre, in altri termini, attuare in maniera rapida la cosiddetta “transizione energetica”. Nella pratica, essa è ancora un processo lungo e irto di ostacoli di vario genere, che ad oggi ne rallentano l’attuazione. In questo articolo, proveremo a capire cosa trattiene indietro il nostro Paese nel confronto con altre nazioni europee.
Progetti pronti ma… fermi
Se diamo uno sguardo a come l’Italia sta affrontando nella pratica il tema della transizione energetica, non possiamo non notare uno squilibrio tra l’attivismo di molte imprese private, spesso all’avanguardia in termini di tecnologie e risultati raggiunti, e i ritardi burocratici con cui le stesse sono costrette a convivere quotidianamente.
Stando ai dati ufficiali, forniti dall’Alleanza per il fotovoltaico, ente che raggruppa i più importanti soggetti che operano nel settore, nel prossimo anno potremmo già “mettere a terra” un gran numero di progetti provenienti da aziende private, per un ammontare complessivo di più di trenta miliardi di euro e una potenza che si aggira intorno a quaranta GW. Si tratta, nel complesso, di numeri davvero impressionanti, e per questo vale la pena di analizzare i motivi che hanno causato il ritardo nella loro realizzazione.
Il fenomeno del Nimby
Una delle ragioni più comuni in grado di rallentare l’esecuzione dei progetti relativi alla transizione energetica è riassumibile nell’acronimo NIMBY (Not in my backyard, ovvero “Non nel mio cortile”).
Nata negli anni ’80 e in molti casi giustificata dall’opposizione delle comunità locali (riunite in comitati o associazioni) a interventi realmente invasivi del proprio territorio (come ad esempio grandi complessi industriali inquinanti o strutture deleterie per il turismo), la cosiddetta sindrome Nimby può coinvolgere anche l’installazione di impianti di energia pulita, rendendo difficoltoso l’avanzamento della transizione energetica.
In tal senso, il dialogo e la corretta informazione assumono un ruolo fondamentale: solo rendendo partecipi i cittadini dei benefici delle nuove tecnologie “pulite” si riesce a vincerne le resistenze. In sostanza, si tratta di una questione culturale da affrontare in modo migliore a livello comunicativo ed educativo.
I luoghi più adatti per il fotovoltaico
Strettamente connesso al fenomeno del Nimby è quello relativo alla compatibilità tra attività agricola e impianti fotovoltaici. Secondo un’opinione comune, l’installazione dei pannelli provocherebbe danni alle coltivazioni e occuperebbe una superficie eccessiva di terreno.
A un’analisi più approfondita, però, questa considerazione si scontra con la realtà dell’agrivoltaico [vedi articolo]. Rispetto alla superficie sufficiente alla produzione di grandi quantità di energia, infatti, il terreno necessario è una percentuale minimale. Inoltre, l’agrivoltaico non intacca le coltivazioni più produttive e la precedenza nella sua installazione è quasi sempre data a zone più idonee, perché non utilizzabili in altro modo (un esempio sono le ex aree industriali non più in uso).
L’empasse tecnica
Oltre alle resistenze locali, un altro ostacolo alla messa a terra di progetti afferenti alla transizione energetica sta nel percorso che porta alla loro approvazione, che in molti casi si tramuta in un labirinto normativo fatto di rinvii e ritardi. A istruire le domande dovrebbero essere un’apposita commissione (Commissione Pniec/Pnrr) e il ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (ex ministero della transizione ecologica) che si trovano tuttavia in certi casi a corto di funzionari in grado di analizzare e approvare le pratiche in tempi brevi.
A questo problema, risolvibile con maggiori investimenti e personale, si aggiunge poi l’incertezza nell’interpretazione della normativa, che porta a un ulteriore ritardo. In aggiunta, il percorso viene spesso bloccato per via della controverifica del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che interviene dopo il parere della commissione, comportando una potenziale “marcia indietro” del progetto. Insomma, una semplificazione burocratica sarebbe indispensabile per alleggerire i passaggi necessari all’approvazione dei progetti.
I vantaggi dell’autoproduzione energetica
La presente crisi energetica, resa ancora più grave dal conflitto tra Russia e Ucraina che ha costretto molti stati europei a fare a meno del gas russo, comporta un’accelerazione ulteriore sulla strada delle rinnovabili. Queste ultime, operanti nelle forme dell’autoproduzione energetica, rappresentano infatti un’alternativa più conveniente e sostenibile per tutto il “sistema paese” e possono sostituire le fonti inquinanti nell’alimentazione del nostro sistema industriale.
Producendo dieci GW di energia annualmente (solo dagli impianti fotovoltaici) e integrando l’energia solare con ulteriori impianti geotermici ed eolici, potremmo infatti arrivare a ottenere quasi l’80% del nostro fabbisogno nazionale. Rimanere indietro, in questi casi, significa perdere un’occasione unica.
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